Likely Classics

Percorsi di cultura classica


Saffo, fr.104a Lobel-Page

Tempo fa un caro amico di famiglia mi ha rivolto un quesito via email circa la traduzione di questo frammento di Saffo.

Ἔσπερε πάντα φέρων ὄσα φαίνολις ἐσκέδασ’ Αὔως,
†φέρεις ὄιν, φέρεις αἶγα, φέρεις ἄπυ† μάτερι παῖδα.

La sua straordinaria memoria ricordava questa traduzione di Salvatore Quasimodo:

Vespro, tutto riporti quel che disperse la lucente aurora: porti la pecora, porti la capra, porti di nuovo il fanciullo alla madre.

Il mio interlocutore mi chiedeva di far luce su una diversa traduzione che è invece riportata nell’ultima edizione dell’opera di Quasimodo in cui si dà – a suo parere – un’interpretazione non soddisfacente del testo di Saffo:

[…] riporti la pecora, riporti la capra, ma non riporti la figlia alla madre.

Di seguito la mia risposta:

La traduzione di Quasimodo del 1940 è: Vespro, tutto riporti…; nel 1944, Quasimodo cambia e sceglie di tradurre Espero, tutto riporti riattivando il ruolo dell’astro come agens in luogo del tempo del giorno (il vespro, appunto). Nel 1958 una nuova e definitiva edizione vede il passaggio da aurora ad Aurora per simmetria con il passaggio vespro/Espero; ed è in questa edizione del 1958 e in questo nuovo contesto che Quasimodo riconsidera l’interpretazione di φέρεις ἄπυ μάτερι παῖδα al v.2. Se, infatti, nelle edizioni precedenti (’40, ’44 e ’51) la traduzione era “riporti il figlio alla madre”, in quella del 1958 sceglie di tradurre “ma non riporti la figlia alla madre”. 

Chiarito questo punto, mi son però appassionato […]. Per comodità di lettura riporto il testo nell’edizione Lobel – Page:

Ἔσπερε πάντα φέρων ὄσα φαίνολις ἐσκέδασ’ Αὔως,
†φέρεις ὄιν, φέρεις αἶγα, φέρεις ἄπυ† μάτερι παῖδα.

Fonti: Ps. Demetrio (De elocutione 141); Scolii a Euripide, Oreste 1260; Etymologicum genuinum (AB) Calame 71; Etymologicum Gudianum 446, 3; alii.

Al v.1 φέρων è lezione della maggior parte degli altri testimoni; cfr. anche Hom. Il. IX 331-2 […] καὶ πάντα φέρων Ἀγαμέμνονι δόσκον / Ἀτρεΐδῃ […]; φέρῃς in Ps. Demetrio  che è il testimone principale del frammento e che cita il distico come esempio illustre di anafora (v.2): non è escluso che la lezione dello Ps. Demetrio sia un inganno della memoria causato da questa suggestione retorica. Tuttavia, proprio in virtù del contesto della citazione c’è chi – come Bruno Gentili – ritiene preferibile φέρῃς. 

L’interpretazione del v.2 è problematica sia dal punto di vista metrico che da quello semantico. Se il frammento era effettivamente parte di un testo esametrico – come l’esametro al verso 1 e l’imitazione di Catullo (carme 62) lasciano supporre – allora il verso pare irrimediabilmente corrotto (vedi le cruces nell’edizione Lobel-Page); Voigt, ritenendo plausibile una più articolata struttura metrica di quello che doveva essere un epitalamio, ipotizza una dipodia giambica+ferecrateo ed espansione di due dattili; ma ci sono altre interpretazioni ancora.
Per ciò che riguarda, invece, la traduzione di φέρεις ἄπυ μάτερι παῖδα, G. Perrottariporti il figlio alla madre (Lirici Greci, Garzanti 1980 III ed., pagg.164-5) ma F. Ferrariporti via la figlia alla madre (Rizzoli, 1994) e D. Del Cornoma porti via la figlia alla madre. Considerato che nel significato di “porto via”, ἀποφέρω si costruisce con il genitivo della persona alla quale si sottrae qualcosa, queste due ultime traduzioni si giustificano interpretando μάτερι come dativus incommodi ma, almeno secondo Perrotta-Gentili, questa è una “soluzione forzata”. Sull’interpretazione, tuttavia, non può non considerarsi la testimonianza dell’imitazione catulliana nel carme 62 ai vv.21-23: Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis? /Qui natam possis complexu avellere matris,/complexu matris retinentem avellere natam,/et iuveni ardenti castam donare puellamCome spiegare questa prossimità? Secondo Gentili, Catullo avrebbe attinto a versi perduti, forse di questo stesso componimento. L’opposizione di significato con i φέρεις (o φέρῃς) precedenti – come anche nella seconda traduzione di Quasimodo (ma non riporti) – richiederebbe almeno un δὲ ma il contesto della citazione dello Ps. Plutarco scoraggia tale ipotesi.

A mio parere – molto modesto – sulla scelta di tradurre ἀποφέρω con “porto via” (come anche il “non riporti” di Quasimodo) incidono non solo il riferimento catulliano e la tipicità della scena, ma anche quella sorta di chiusura epigrammatica (Aufschluss) che ne deriverebbe. E a proposito di epigrammi giova ricordare che Quasimodo tradusse anche l’epigramma di Meleagro (AP XII 114) che allude ai versi saffici:

Ἠοῦς ἄγγελε, χαῖρε, Φαεσφόρε, καὶ ταχὺς ἔλθοις
 Ἕσπερος, ἣν ἀπάγεις, λάθριος αὖθις ἄγων.

O messaggero dell’Aurora, salve
Lucifero, ma torna presto come
Espero, e riportami di nascosto
la ragazza che tu mi porti.

Infine, una curiosità. Anche Giovanni Pascoli ha ritrattato la traduzione di questo frammento ma seguendo un percorso inverso a quello di Quasimodo. Nella Lyra romana (1895):

Espero, tu porti quanto disperse l’aurora,
porti l’agnella, porti la capra, porti alla madre la figlia via. 

Nella Lyra (1911):

Espero, tu porti quanto disperse l’aurora,
porti l’agnella, porti la capra, riporti alla madre il suo ragazzo.



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